Cultura e spettacoli

Slum, musica e teatro per storie di baraccati

Finita l’estate, terminati i concerti estivi, ed in attesa della ripresa di quelli invernali, incontriamo Salvatore De Siena, strongolese co-fondatore del Parto delle Nuvole Pesanti, per chiedergli qualcosa in più su Slum, il nuovo disco, colonna sonora di uno spettacolo teatrale che quest’inverno vedrà il Parto impegnato nelle insolite vesti di attori-musicisti, nei teatri e nelle rassegne teatrali piuttosto che sui palchi musicali. Salvatore, dall’etno-punk degli esordi a Slum il Parto ne ha fatta di strada. In Raggia, vostro primo brano, si parlava della paura ancestrale del nemico che veniva dal mare. Oggi in Calabria non sbarcano più i turchi, ma i “gusci di noce” dei disperati africani di cui parlate in Slum, e gli allarmi dalla costa si lanciano per salvarli.

Finita l’estate, terminati i concerti estivi, ed in attesa della ripresa di quelli invernali, incontriamo Salvatore De Siena, strongolese co-fondatore del Parto delle Nuvole Pesanti, per chiedergli qualcosa in più su Slum, il nuovo disco, colonna sonora di uno spettacolo teatrale che quest’inverno vedrà il Parto impegnato nelle insolite vesti di attori-musicisti, nei teatri e nelle rassegne teatrali piuttosto che sui palchi musicali.
Salvatore, dall’etno-punk degli esordi a Slum il Parto ne ha fatta di strada. In Raggia, vostro primo brano, si parlava della paura ancestrale del nemico che veniva dal mare. Oggi in Calabria non sbarcano più i turchi, ma i “gusci di noce” dei disperati africani di cui parlate in Slum, e gli allarmi dalla costa si lanciano per salvarli. In tutto ciò, come sono cambiati i calabresi e cosa li lega da sempre, in qualche modo, alle migrazioni?
“Penso che ancora oggi la società calabrese sia caratterizzata da un senso di precarietà di cui l’emigrazione è un aspetto fondamentale. Precarietà che si nota nella difficoltà di progettare, di lavorare in gruppo, di finire le case e le cose iniziate, in un certo fatalismo che affievolisce il senso di responsabilità. È come se i calabresi si sentissero in una sorta di continuo “movimento instabile”. Ma questa condizione di precarietà e l’esperienza di una grande emigrazione, hanno sviluppato nei calabresi anche un fortissimo sentimento di accoglienza. Alcuni studiosi ritengono che la nuova identità dei calabresi si sia formata proprio con l’esplodere del fenomeno migratorio. E forse un fondo di verità c’è in questa affermazione, perché noto sempre di più che per i calabresi è come se la vita si svolgesse sempre lontano da casa: il sentimento migratorio ha finito per diventare una forma dello spirito, una condizione esistenziale che aiuta alla comprensione dell’altro e del mondo. Ad un calabrese non chiedergli dov’è, ma dove sta andando!”.
Slum coglie un legame profondo e fino ad ora solo ‘pensato’, fra Meridione d’Italia e continente africano. Puoi dirci meglio di cosa si tratta?
“Lo spettacolo, che ha in Milvia Marigliano una straordinaria protagonista e regista, è un luogo ideale, in cui le immagini, le voci e le lingue africane si mischiano e si confondono con quelle del Sud, calabresi, napoletane. D’altra parte non bisogna dimenticare che la Calabria fino all’ottocento veniva considerata parte integrante dell’Africa Settentrionale. Perciò, lo stretto legame culturale tra il Sud, la Calabria e l’Africa si coglie in mille aspetti della vita. Ad esempio, alcune fiabe africane raccontate in Slum sono molto simili a quelle della tradizione calabrese”.
“Gli Slum, poi, mi riportano alla mente le baracche sulla spiaggia di Strongoli, in cui ho passato le mie estati da bambino e che non erano tanto diverse dalle baracche in cui purtroppo vivono centinaia di milioni di persone ancora oggi. Anche noi avevamo i problemi delle fogne, dell’acqua potabile, ma nessuno cercò di risolverli, anzi si adottò la soluzione del fuoco per sbarazzarsene e fare spazio alla speculazione edilizia che ha distrutto e devastato le nostre coste. Esattamente come succede oggi negli Slum dove addirittura si usano topi e gatti bruciati vivi per incendiare quante più baracche possibili.
È per questo che ti viene da chiederti se il Sud e la Calabria, al di là di ogni retorica, ancora oggi non siano più legate all’Africa che all’Europa, e se certe politiche di cooperazione, anche in materia di immigrazione, non debbano essere ripensate alla luce di questo forte legame”.
“In fondo Slum è la nostra storia, di poveri, emigrati, baraccati, desertificati, privati dei diritti fondamentali e della dignità, sfruttati e umiliati. Slum è il nostro album fotografico. È uno specchio in cui il bianco si tinge di nero. Ma forse questo ci fa paura”.
Vuoi presentarci Slum più da vicino?
“Slum è una vecchia parola inglese (si pronuncia Slam) che stava ad indicare un luogo di massimo degrado, soprattutto per riferirsi alle baraccopoli delle periferie delle grandi città dell’Africa e dell’Orienteo. “Slum” è quindi un’opera di musica e teatro, costruita su testi di Pierfrancesco Majorino, Christa Wolf misti ad alcune fiabe africane, che parte dalle baraccopoli del mondo per parlare di noi, e soprattutto per raccontare storie attraverso gli occhi nostri di italiani, meridionali, calabresi. In quest’ottica, i problemi dell’emigrazione, della desertificazione ambientale, del degrado estetico, della disoccupazione e delle nuove forme di povertà, diventano comuni, condivisibili. D’altra parte siamo in piena globalizzazione”.
Per voi ripartire dal teatro significa anche confrontarsi con il successo di Roccu u stortu, dove suonavate dal vivo sul palco appesi a dei trampoli. In Slum cosa è cambiato e cosa invece ritroviamo?
“Intanto Slum ha in comune con Roccu il fatto che si tratta di un lavoro teatrale e musicale insieme. Poi c’è il sound forte più legato alla nostra tradizione e a certe venature punk-folk rintracciabili nei nostri primi album. Simile a Roccu è anche la struttura del disco, che alterna musica a recitati per restituire all’ascoltatore il profumo dello spettacolo. Ma Slum è diverso da Roccu perché la regista ha preteso da noi una piena quanto difficile partecipazione attoriale. Noi musicisti in scena siamo chiamati a interpretare ruoli di massima tensione emotiva con pochissimi dialoghi e occhi puntati sempre sul pubblico, in una condizione d’immobilità, che è esattamente il contrario di quello che facciamo in concerto”.
Le novità musicali di questo disco sono due: un ulteriore passo avanti verso la world-music internazionale e un ritorno inatteso al dialetto calabrese. È una contraddizione solo apparente?
“Effettivamente c’è anche il dialetto calabrese in questo lavoro ma ciò non è dipeso da scelte di principio, piuttosto dalla necessità di assecondare la drammaturgia teatrale, tant’è che si parla e si canta anche in dialetto napoletano mentre nella traccia “ambulanza” ci sono le voci dei mercanti africani che si mischiano con quelle degli ambulanti bolognesi. È invece lo sguardo artistico che è diventato più ampio e contempla una musicalità aperta al mondo senza confini di generi o di territori. E questo si avverte molto in brani come “Jungiali”, “Acqua” o “Diciammillu duv’è”, in cui affiorano influenze di Talking Heads e Tuxedomoon, Negresses Vertes, ritmi tribali africani, bossa nova, Roberto Murolo e Roberto De Simone, e certe esperienze di teatro-canzone. Sono i frutti di una certa sperimentazione che siamo facendo e che credo sempre più popoleranno il futuro del Parto delle Nuvole Pesanti”.
Salvatore, tu sei di Strongoli. In Calabria eri punk, poi, appena approdato a Bologna, assieme alle Nuvole Pesanti hai dato voce alla calabresità in musica. Oggi portate senza problemi la vostra musica nelle piazze calabresi come nei teatri lombardi. A distanza di molti anni vorrei, seppure semi-seria, almeno una sorta di spiegazione…
“La spiegazione invece è presto data, ed è molto seria! Man mano che crescevo capivo sempre meno il senso della musica generazionale. Quindi mi sono detto “un giorno dovrò fare una musica che possa ascoltarla il figlio, come il padre ed il nonno”. Oggi quando ai concerti vedo che questo succede, penso di avere realizzato il sogno della mia vita”.
Una domanda, per me, di rito: la nostra zona ha pochissimi locali musicali né tantomeno sale prove, ma nel tempo ha espresso artisti di altissimo livello, da Rino Gaetano a Sergio Cammariere, un pezzo di Nuvole Pesanti e tanti strumentisti apprezzatissimi nella musica leggera. È una croce e delizia, nascere nel crotonese per un artista?
“La nostra situazione fa crescere artisti bifronti, con il doppio di stessi: uno che si alimenta dei ricordi del passato e l’altro che costruisce il futuro nei nuovi luoghi in cui approda. Ad entrambi vacilla il presente. Questa condizione, come ho detto prima, crea un senso di “permanenza fuori casa”, e così passi il tempo nella “strada” della tua testa che fa fatica ad addormentarsi serenamente. In compenso riesci a ritrovare la lucidità delle cose viste a giusta distanza, e la capacità di saperle rappresentare con la forza e l’autenticità di chi le ha vissute da dentro e fuori”.
Le Nuvole pesanti in circa vent’anni di attività live hanno incrociato frequentemente la loro terra. Ci racconti le tue impressioni, i mutamenti notati nel nostro territorio ogni volta che ci torni a suonare?
“La cosa più positiva che ho notato in tutti questi anni è il fiorire di donne sempre più intelligenti, e spero che diventino sempre più protagoniste della vita sociale, politica e culturale. La cosa più negativa invece è la deriva della politica. Abbiamo politici capaci di far fallire ogni progetto culturale se non portano acqua clientelare al proprio mulino, quindi è meglio starne alla larga e affidarsi alle proprie forze e capacità e chiedere la collaborazione di altre realtà territoriali. Ad esempio, quest’anno si è creata un’ottima collaborazione con la realtà imprenditoriale di Strongoli, un piccolo miracolo per questo paese martoriato dalla criminalità mafiosa che ha insanguinato la zona per diversi decenni. Con l’Azienda Agricola Ceraudo siamo riusciti a realizzare un evento, come lo spettacolo teatrale “Slum”, all’ombra dei millenari ulivi dell’antica Petelia, che, a detta di molti, è stato uno dei più importanti dell’estate calabrese, ciò senza alcun aiuto o sudditanza nei confronti delle istituzioni politiche. E il pubblico ci ha ripagato ampiamente degli sforzi”.
Una domanda ‘insolita’ sul vostro pubblico. È capitato di trovare i “lupisti” già pronti sotto il palco a Pordenone come in Germania o in Andalusia! Poche volte però come nei paesi del Marchesato ho assistito ad un legame così sentito, quasi familiare, fra voi ed il vostro pubblico. Quasi foste fratelli maggiori o confidenti.
“Credo che alla base di questo rapporto ci sia il modo di vivere il progetto del Parto come qualcosa di collettivo e di “popolare”, nel senso che appartiene al pubblico che ci segue e alla cultura che lo alimenta. Per questo non ci presentiamo come “gli artisti” ma ricerchiamo sempre il contatto umano, da uomo a uomo. Il nostro palco è sempre al piano terra, in modo da guardare il pubblico ad altezza d’uomo. E questo credo che il pubblico lo capisca e lo apprezzi. In particolare con il pubblico del Marchesato ci unisce la voglia di raccontare la rabbia ma anche la gioia e il desiderio di vivere e d’incontrarsi degli “ultimi”, dei più deboli. Oggi più che mai, dopo avere scoperto la solitudine dei primi, quasi ci viene voglia di rimanere gli ultimi per sempre”.
SIMONE ARMINIO