Cronaca

La città dei veleni e la maledizione del cubilot

Bisogna tornare indietro al 1997 per comprendere a fondo la vicenda delle scorie tossiche di cui sembra essere disseminato il sottosuolo dell’intera città e, allo stesso tempo, dove va a parare il lavoro degli inquirenti che, con l’indagine ‘Black mountains’ ritengono di aver sollevato il coperchio che ricopriva quella montagna di veleni.

Bisogna tornare indietro al 1997 per comprendere a fondo la vicenda delle scorie tossiche di cui sembra essere disseminato il sottosuolo dell’intera città e, allo stesso tempo, dove va a parare il lavoro degli inquirenti che, con l’indagine ‘Black mountains’ ritengono di aver sollevato il coperchio che ricopriva quella montagna di veleni. Tornare indietro nel tempo serve anche a capire perché l’elenco degli indagati, che originariamente includeva sette persone soltanto, si è dilatato fino a contarne addirittura quarantasei.
Correva l’anno 1997 ed a quel tempo gli alti dirigenti della società Pertusola sud, ormai destinata a morte certa tramite liquidazione, avevano un problema enorme: liberarsi di circa 400 mila tonnellate di scarti provenienti dal processo produttivo dello stabilimento metallurgico, le famose ‘scorie di cubilot’ contenenti arsenico, zinco, piombo, indio, germanio, mercurio, tutti metalli ritenuti altamente cancerogeni per i quali la legge prevedeva lo smaltimento in apposite discariche. Gli amministratori della società, evidentemente poco propensi ad accollarsi i costi dell’operazione, pensarono bene che quelle scorie potevano essere spacciate come materiale da riempimento per sottofondi stradali ed altre opere di edilizia. Meglio ancora se fossero state classificate come rifiuti non pericolosi. Iniziarono così il pressing sul ministero dell’Ambiente per far includere le scorie del cubilot nel decreto che il governo si apprestava ad emanare; e le indicazioni dei dirigenti di Pertusola in effetti si ritroveranno nel decreto Ronchi del 5 febbraio 1998 che classificava il cubilot come rifiuto non pericoloso, malgrado alcuni dei componenti del gruppo di lavoro incaricato dal ministro di studiare la materia ne avessero chiaramente denunciato i gravi rischi.
Fu allora che le scorie di cubilot finirono, insieme alla ‘loppa d’alto forno’ proveniente dall’Ilva di Taranto, in una miscela chiamata ‘conglomerato idraulico catalizzato’, l’ormai famigerato Cic con il quale, a partire dal 1999, sono stati riempiti i piazzali della scuola elementare ‘San Francesco’ in via Cutro, dell’Istituto tecnico commerciale di via Acquabona, della scuola elementare ubicata nel rione Pozzoseccagno a Cutro, ma anche di centri commerciali, alloggi popolari e villette private, strade e persino della Questura e della banchina di riva del porto di Crotone.
Per l’esattezza diciotto siti, che esattamente un anno addietro, nel settembre 2008, sono stati sottoposti a sequestro a conclusione del primo filone dell’indagine condotta dal sostituto procuratore Pierpaolo Bruni. In quel momento gli inquirenti hanno iscritto sul registro degli indagati sette persone: il legale rappresentante della Pertusola sud e quelli delle imprese private che hanno utilizzato il Cic, fornito gratuitamente dalla società metallurgica che le avrebbe addirittura incentivate con un piccolo contributo per il costo del trasporto.
In quel momento, soprattutto, sono scoppiate le polemiche sui rischi per la salute dei cittadini che hanno convissuto per anni con le scorie tossiche; e in effetti le analisi sui luoghi e sulle persone, disposte dal procuratore della repubblica Raffaele Mazzotta, hanno confermato la presenza di un forte inquinamento e seri rischi per la salute, anche se lo stesso magistrato, nel presentare finalmente i risultati di quelle analisi rimaste nel cassetto per alcuni mesi, ha voluto gettare acqua sul fuoco, negando una situazione di emergenza.
Nel frattempo l’indagine, portata avanti con pazienza certosina e caparbietà dagli investigatori della Guardia di finanza e del Nisa sotto le direttive del pm Bruni, è cresciuta. Sono emerse così le manovre per ‘aggiustare’ il decreto Ronchi e includere le scorie cubilot tra i rifiuti non pericolosi a causa delle quali lo stesso ex ministro dell’Ambiente è finito sul registro degli indagati in compagnia del direttore generale dello stesso ministero Gianfranco Mascazzini, del capo di gabinetto Goffredo Zaccardi, del vice capo dell’ufficio legislativo Maurizio Pernice.
Sono andati ad allungare l’elenco degli indagati anche due prefetti, Domenico Bagnato e Salvatore Montanari, nella loro qualità di ex commissari per l’emergenza ambientale nella regione Calabria; amministratori locali come l’ex sindaco Pasquale Senatore con il reggente Armando Riganello e l’ex presidente della Provincia Sergio Iritale oltre a una sfilza di funzionari dei due enti che “a seguito della comunicazione della Procura della Repubblica di Crotone del 17 marzo 2004 (con la quale si evidenziava il predetto stato di inquinamento per come sopra riportato con conseguente grave pericolo per la salute pubblica) omettevano di adottare idonei provvedimenti necessari a interrompere la situazione di pericolo e di inquinamento in atto”.
In sostanza, una volta scattato l’allarme grazie anche alle denunce apparse su questo giornale, la magistratura aveva aperto un’inchiesta intimando alle autorità competenti di correre ai ripari. Cosa che in effetti non è mai avvenuta.
Complessivamente 46 indagati, ha specificato il procuratore Mazzotta nel corso di una conferenza stampa tenuta a palazzo di giustizia, ai quali dal pomeriggio di mercoledì gli uomini del Nisa, della Guardia di finanza e dell’Arma dei carabinieri stanno notificando altrettanti avvisi di conclusione delle indagini. Sarà stralciata, ha precisato Mazzotta, la posizione di Edo Ronchi del quale si occuperà il tribunale dei ministri.
Domenico Policastrese