Cronaca

Prigionieri sul barcone del dolore

Ci sono delle vite che non sono vite, esistenze drammatiche, al limite dell’immaginazione... Sembrano cose lontane, alle quali, per fortuna, è possibile accostarsi soltanto attraverso quella televisione che, per quanto possa farci indignare, fa sentire al sicuro. Quello che accade in Nigeria, Ghana, Afghanistan, Pakistan, Iran, Irak, sembra lontano da noi... Almeno questo è quello che siamo portati a pensare, facendo finta di non sapere che quelle esistenze assurde ci sono più vicine di quanto crediamo. Quelle vite sono infatti sotto gli occhi di tutti, aspettano in stazione, sulle carrette del mare ormeggiate nel porto di Crotone, afflitte dal freddo tra la spazzatura, i topi di fogna, la ruggine... Di solito sono diffidenti, ma ora che non si aspettano più niente dalla vita, ora che il loro sogno di Italia si è rivelato nella sua cruda realtà ed hanno capito che non hanno proprio più nulla da perdere, si raccontano.

Ci sono delle vite che non sono vite, esistenze drammatiche, al limite dell’immaginazione… Sembrano cose lontane, alle quali, per fortuna, è possibile accostarsi soltanto attraverso quella televisione che, per quanto possa farci indignare, fa sentire al sicuro.
Quello che accade in Nigeria, Ghana, Afghanistan, Pakistan, Iran, Irak, sembra lontano da noi… Almeno questo è quello che siamo portati a pensare, facendo finta di non sapere che quelle esistenze assurde ci sono più vicine di quanto crediamo. Quelle vite sono infatti sotto gli occhi di tutti, aspettano in stazione, sulle carrette del mare ormeggiate nel porto di Crotone, afflitte dal freddo tra la spazzatura, i topi di fogna, la ruggine…
Di solito sono diffidenti, ma ora che non si aspettano più niente dalla vita, ora che il loro sogno di Italia si è rivelato nella sua cruda realtà ed hanno capito che non hanno proprio più nulla da perdere, si raccontano. Anzi sono loro stessi a chiedere che venga raccontato il loro dramma, consapevoli che elemosinare pietà sia ormai l’unica strada per avere aiuto e quindi salvarsi. Così quegli immigrati che vivono in una carretta del mare ormeggiata nel porto fanno entrare senza problemi nella loro ‘dimora’ le macchine fotografiche: vogliono raccontarsi per chiedere aiuto, perché non sanno cos’altro fare. Lì dentro, tra rifiuti, topi, ruggine fa troppo freddo adesso e si stanno ammalando. Hanno fame e i soldi che avevano in tasca quando sono partiti sono finiti.
Fino alla scorsa settimana su quella nave rossa, la ‘Cengizhan’, c’erano oltre 20 perone, che vivevano lì in attesa del rilascio dei documenti di identificazione dalla Questura necessari ad accedere al Campo di Sant’Anna.
La regolarizzazione
Le presenze, tuttavia, cambiano di continuo, anche se non manca chi su quella nave ci resta per mesi. Venerdì 17 dicembre, per esempio, la Questura ha autorizzato un cospicuo numero di ingressi nel Centro per stranieri di Sant’Anna, a bordo erano rimasti solo in sei, ma probabilmente nell’arco di pochi giorni si è nuovamente riempita: a Crotone ogni giorno arrivano immigrati che chiedono di regolarizzare la loro situazione, ormai, già quando decidono di partire dai loro Paesi, sanno che qui c’è il Centro di identificazione più grande d’europa e lo Sprar (Servizio centrale del sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati).
Nella maggior parte dei casi, infatti, si tratta di richiedenti asilo politico, che arrivano da Paesi tormentati da guerre e violenze. Sono volti troppo giovani: giovedì 16 dicembre il più piccolo aveva 17 anni, l’età media si aggirava tra i 21 e i 23 anni, non c’era nessuno che superasse i 30 anni. Una gioventù disgraziata che se avrà la fortuna di arrivare alla maturità sarà sicuramente felice di regalare i suoi ricordi all’oblìo. Che emozione potrebbe dare, altrimenti, il ricordo di stive sporche, piene di materassi sudici e vecchie coperte, in cui si trascorrono notti in bianco, con il freddo che è così acuto da penetrare nelle ossa, da spaccare le mani e i piedi protetti solo da scarpe rotte? In tanti non hanno nemmeno i calzini. Che senso avrebbe ricordare quella povertà, le minestre cotte in un pentolone sporco, i fuochi accesi, bruciando sulla nave stessa tutto ciò che si trova per strada per riscaldarsi, ma portandosi addosso il terrore che divampi un incendio. Da quella nave, infatti, non si scende e non si sale facilmente, ma bisogna arrampicarsi come le scimmie, saltando su quello spazio che separa la nave dalla banchina e facendo attenzione a non cadere in mare. È una lotta per la sopravvivenza. Anche mangiare, dormire, andare in bagno… Lavarsi, poi, è praticamente impossibile, quando non fa troppo freddo si prende l’acqua del mare. Sì, proprio quella sporca ed inquinata del porto: è con quella che quegli stranieri si fanno la barba. L’acqua dolce la si deve risparmiare per mangiare e bere. Quei ragazzi si sono attrezzati con taniche di plastica che riempiono ad una fontana pubblica, poi li trasportano sul porto e, sempre arrampicandosi, sulla nave.
I pericoli lì dentro, sono nascosti in ogni angolo: ci sono parti della nave piene di fango e acqua, vecchie bombole di gas corrose dal tempo, voragini nel ponte nelle quali si potrebbe cadere in ogni momento, soprattutto quando è buio. Ma loro in quella nave sanno come orientarsi, sono abituati al peggio: quando sono partiti dalla loro terra malevola sicuramente pensando all’Italia avevano tante altre aspettative, non avrebbero mai immaginato di finire lì dentro. Ora, che pur volendo non avrebbero nemmeno i soldi per tornare indietro, però, non hanno nostalgia dei loro paesi. Ogni situazione di miseria è sempre meglio del Pakistan, dove, se non obbedisci ai talebani, ti tagliano gli arti, ti uccidono solo per rubarti il cellulare; niente è peggio dell’Afghanistan, dell’Iraq o dell’Iran, dove tutti sono nemici e per fame potrebbe ucciderti chiunque.
“Nel nostro Paese – ha detto un pakistano – quando esci di casa non sai se tornerai, la morte ti segue sempre. Tutti, per questo, stiamo cercando di scappare, non solo in Europa, ma anche in America”.
Un ventunenne pakistano che ascoltava con un’espressione cupa ha aggiunto “qui, su questa nave, stiamo malissimo, non si può vivere, quando sono partito ho rischiato la vita pur di arrivare in Italia e non mi aspettavo di finire così. Pensavo all’Italia come ad un bel posto ed avrei fatto di tutto per arrivare, la mia famiglia ha pagato 8 mila euro. Ora sono deluso, però, non tornerei mai indietro perché nel mio Paese è ancora peggio, in Afghanistan c’è solo morte. Da un momento all’altro potrebbe caderti una bomba addosso, ti potrebbero sparare o rapire. Abbiamo visto tanta gente morire così o sparire all’improvviso e sappiamo bene com’è”.
Le storie si intrecciano: c’è chi è arrivato via mare nascosto in stive strette, chi è venuto in aereo, chi in pullman passando per la Grecia e l’Europa dell’Est. Tutti, però, conoscevano Crotone prima di arrivarci, sanno che qui si ottengono i documenti. C’è chi con l’aereo è sceso in Svezia, addirittura, in Svizzera, in Irlanda o in Olanda: qui arrivano solo per regolarizzare la loro presenza.
Il desiderio di partire
Proprio per questo chiedono di essere “raccontati”: “abbiamo bisogno di risolvere presto i nostri problemi con i documenti perché dobbiamo andare via da qui per iniziare ad avere una vita normale. Non possiamo fare nient’altro, solo aspettare, non sappiamo dove andare… Siamo imprigionati in questa nave, senza documenti non possiamo nemmeno andare via, lavorare, perché siamo clandestini, né possiamo spettare in un altro posto perché non esiste un posto per noi in questa città. Dove andiamo?”.
Sono sporchi gli stranieri, dice qualcuno, hanno occupato il porto e lo hanno reso insicuro, non si lavano, vivono tra i rifiuti… È tutto vero. Sarebbe ipocrita dire il contrario, perché è così: in quella nave c’è una puzza che non si può descrivere, la situazione è talmente assurda che nessun racconto dettagliato basterebbe a descriverla. Non si nasconda l’evidenza, lì dentro non possono e non devono stare. Ma si abbia prima il coraggio di rispondere alla loro domanda: dove devono andare?
Angela De Lorenzo