Cronaca

Caso Shalabayeva: assolto Renato Cortese perché il fatto non sussiste

Ribaltata in Appello la sentenza per il poliziotto di Santa Severina che catturò Provenzano. Assolti anche gli altri 4 imputati.

Quello di Alma Shalabayeva non fu un sequestro di persona. A decretarlo è stata la Corte d’appello di Perugia che, annullando le condanne del primo grado, ha assolto con la formula più ampia, "perché il fatto non sussiste", Renato Cortese, il poliziotto degli arresti di Bernardo Provenzano e Giovanni Brusca, Maurizio Improta e un gruppo di loro collaboratori con i quali, nel maggio del 2013, guidavano la squadra mobile e l’ufficio immigrazione della questura di Roma.
 La Corte di appello di Perugia ha assolto con formula piena gli imputati accusati di sequestro di persona per le presunte irregolarità legate al rimpatrio di Alma Shalabayeva, la moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, espulsa verso il Kazakhstan nel 2013 insieme alla figlia Alua e poi entrambe tornate in Italia. Tra loro gli ex capi della squadra mobile e dell’ufficio immigrazione della questura di Roma, Renato Cortese e Maurizio Improta. 
Era il 28 maggio del 2013 quando Alma Shalabayeva venne fermata dalla polizia mentre si trovava in una villa a Casalpalocco, a Roma, dove gli agenti stavano cercando il marito, il dissidente kazako Mukhtar Ablyazov. Alla donna venne contestato il possesso di un passaporto falso e, pochi giorni dopo, fu espulsa insieme alla figlia di sei anni. Entrambe vennero imbarcate e fatte partire su un aereo diretto in Kazakistan. Espulsione revocata il 5 luglio, dopo che Ablyazov si era appellato all’allora premier Letta.
Pochi giorni dopo la procura di Roma aprì un’inchiesta su presunte irregolarità nell’espulsione di Shalabayeva, fascicolo poi assegnato per competenza ai pm di Perugia.  Nel dicembre del 2013 l’allora ministro degli esteri, Emma Bonino, riuscì ad ottenere il rientro in Italia delle due espulse alle quali venne riconosciuto lo status di rifugiate.  Per i giudici di primo grado il trattenimento di Alma Shalabayeva e della figlia Alua, fu un evento che "sarebbe preferibile definire un ‘crimine di lesa umanità" e rappresentò "una ipotesi di patente violazione dei diritti fondamentali della persona umana”.
Una sentenza impugnata dagli imputati davanti alla Corte d’appello di Perugia che, nel gennaio scorso, ha riaperto il dibattimento accogliendo la richiesta delle difese di chiamare a testimoniare in aula, tra gli altri, l’ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone e il pm Eugenio Albanonte.  Durante la sua deposizione, Pignatone ha detto di essere rimasto "convinto della falsità  del passaporto" di Shalabayeva sulla base del quale venne adottata l’espulsione e che quindi fosse "dovere concedere il nulla osta". "Non ho mai ricevuto pressioni da parte di Renato Cortese per il rilascio del nulla osta" nei confronti di Shalabayeva e "Maurizio Improta non l’ho proprio sentito quel giorno" ha sottolineato Pignatone in aula.
Giovedì 9 giugno 2022, a distanza di quasi 10 anni dal fatto, la sentenza della Corte di Appello di Perugia che ha assolto con la formula "perché il fatto non sussiste" Renato Cortese, Maurizio Improta, Luca Armeni, Francesco Stampacchia, Vincenzo Tramma e Stefano Leoni. L’allora giudice di pace Stefania Lavore è stata assolta con la stessa formula dal reato di falsità ideologica. La Corte d’appello ha inoltre confermato per lei l’assoluzione già disposta in primo grado per il sequestro di persona. Gli imputati sono stati inoltre assolti da tutti i reati per i quali erano stati condannati in primo grado. Tutti hanno comunque sempre rivendicato la correttezza del loro comportamento. 
Una sentenza accolta da un abbraccio tra Cortese e Improta, poi apparso visibilmente commosso. Ma anche dagli applausi di tanti loro colleghi presenti in aula per sostenerli.Per l’avvocato Ester Molinaro difensore di Cortese insieme a Franco Coppi la sentenza "è una pagina di grande giustizia". "E’ però anche la conferma – ha aggiunto – che questo processo non doveva proprio essere iniziato. Il fatto non sussiste significa che l’impianto accusatorio è stato completamente sradicato dimostrando che la procedura era corretta".